L’ascolto potrebbe apparire, a prima vista, come un’ operazione tutto sommato non molto impegnativa. Molti pensano che, per ben ascoltare, sia sufficiente “stare attenti” e il gioco è fatto.
In realtà, come vedremo, le cose non stanno esattamente così. Possiamo dunque, con buona ragione, porci la domanda: “Siamo davvero capaci di ascoltare?” Si tratta di una domanda più che giustificata dalla constatazione che molti, diversi e assai diffusi comportamenti concorrono ad inquinare la qualità dell’ascolto e dall’ammissione che pochi, davvero pochi, ne sono immuni.
A volte ci accade semplicemente di ignorare ciò che ci viene detto. I nostri pensieri, mentre l’altro parla, sono altrove, lontani anni luce dalle sue parole. Un attento osservatore (ma, per fortuna, anche questi sono rari) potrebbe facilmente rendersene conto, a causa di una mancanza di reazioni che presto risulterebbe sospetta.
Altre volte interrompiamo. Appena l’interlocutore accenna a fare una pausa, cogliamo l’occasione per prendere la parola. Altre volte non abbiamo neppure bisogno della pausa: semplicemente non riusciamo a trattenerci dal dire la nostra. “Scusa se ti interrompo” diciamo e poi partiamo. Se ascoltare è, fra le altre cose, prendersi cura dell’altro, mostrare – come minimo – rispetto e attenzione, proprio non ci siamo! Per di più, così facendo, a volte compiamo un’autentica operazione di autosabotaggio. Prendiamo un venditore che ha il vizio di interrompere (non sarà difficile immaginarcelo: chi di noi non ne ha mai incontrato almeno uno?): ha fatto una domanda al suo cliente per ottenere alcune informazioni – alle quali evidentemente tiene molto, altrimenti perché fare la domanda? – e mentre il cliente sta rispondendo, ossia sta facendo esattamente quel che gli è stato chiesto di fare e si spera che faccia, lo blocca per dire la sua.
Che cosa ha provocato comportandosi così? Probabilmente irritazione nel cliente, ma anche il rischio, molto concreto, che questi, perso il filo del discorso, non vi si raccapezzi più e non sia più in grado di fornire quelle informazioni così importanti e utili che, se gli fosse atto consentito di finire in pace il suo discorso, sarebbe stato ben lieto di dare.
Imparare a non interrompere è dunque molto importante, anche se non sufficiente per poter affermare di saper ascoltare. Esistono infatti coloro che, pur non interrompendo l’interlocutore, non per questo lo ascoltano, bensì si ascoltano.
Essi, infatti, mentre l’altro parla, pensano a ciò che dovranno rispondere, a come potranno ribattere, alla prossima domanda che faranno, a come contrastare un’opinione che non condividono. Sviluppano dentro di sé un “dialogo interno” che, ancora una volta, li porta a concentrarsi non sull’altro, ma su se stessi. Come si può ascoltare efficacemente in presenza di questo “rumore di fondo”? Come cogliere il senso (ma anche le sfumature, che in comunicazione quasi mai sono insignificanti) del discorso dell’altro quando l’attenzione è concentrata sui propri argomenti? Come cogliere le ragioni dell’altro quando si è unicamente preoccupati di decidere in che modo far valere le proprie?
Un’altra operazione piuttosto diffusa consiste nel porre dei filtri al messaggio in arrivo. Vi sono filtri di varia natura, a cominciare da quello che possiamo chiamare “So già…” Il dialogo interno provocato da questo filtro suona più o meno così: “So già quello che mi vuoi dire, ho già capito tutto! Ho ben chiaro dove andrai a parare. La mia esperienza me lo dice.
Quante volte mi sono già state dette cose come queste! Quante situazioni simili ho già vissuto e quanti problemi di questo tipo ho risolto! Mi ricordo anzi di un caso, del tutto simile a questo, in cui…” Simile, forse, ma non uguale. E se non uguale, che cosa possiamo perdere non ascoltando con attenzione? Possono le sfumature e i dettagli risultare, in talune situazioni, addirittura determinanti? Perché dunque concentrarsi su qualcosa di simile, anche se lo abbiamo già sentito, se quel che potremmo ascoltare ha buone possibilità di essere in qualche modo diverso e nuovo? E poi, possiamo veramente essere così certi che il nostro interlocutore andrà a parare proprio dove noi crediamo? E se così non fosse? Se si trattasse di un’altra cosa? Se ci fossero delle informazioni preziose che sarebbe necessario acquisire per meglio comprendere la peculiarità del problema? Quanti errori può farci commettere quella che chiamiamo esperienza!
Un altro filtro: il giudizio. Prima ancora che l’altro abbia finito di parlare, decidiamo se essere d’accordo o no su quanto ci sta dicendo. Spesso assumiamo questa decisione dopo poche parole, innescando una serie di supposizioni, deduzioni, affrettate conclusioni. Perché, invece, non permettergli di terminare la sua esposizione?
Come possiamo conoscere in anticipo il punto di arrivo dei suoi ragionamenti? Crediamo di conoscerlo, ma non sempre cogliamo nel giusto. E poi, quand’anche avessimo ragione nel prevedere l’esito del suo discorso, perché non prestare egualmente la massima attenzione, al fine di coglierne gli eventuali lati deboli sui quali, quando verrà il nostro turno, impostare la nostra strategia?
Un altro filtro che ancora compromette la qualità dell’ascolto è quello dell’interesse. Consiste nell’ascoltare a tratti, concentrandoci solo ciò che ci interessa. E quando decidiamo che non ci interessa che cosa facciamo? Stacchiamo la spina, interrompiamo l’ascolto. Possiamo facilmente immaginare quanto ciò sia dannoso, per esempio, nell’attività di vendita. Che cosa infatti conta nella vendita: ciò che interessa a me o ciò che interessa al cliente? E se ciò che interessa al cliente mi sfugge, che cosa succede?
Talvolta applichiamo il filtro del pregiudizio. Ciò consiste nel cogliere il messaggio non per quel che realmente è o intende significare, ma nel definirne l’attendibilità e la validità a seconda della sua origine. Il pregiudizio può così riguardare la persona che ci parla, a volte la sua funzione (è chiaro il motivo per cui parla così: è un amministrativo…), altre volte la provenienza. Così facendo, se la visione che abbiamo dell’origine del messaggio è negativa, possiamo arrivare a stabilire a priori che il messaggio stesso non è attendibile o addirittura è ingannevole, oppure prevediamo che qualcosa di ciò che ci verrà detto ci irriterà.
Nel primo caso, possiamo immaginare quanto elevata potrà essere la qualità dell’ascolto, mentre nel secondo la nostra attenzione sarà quasi esclusivamente concentrata su eventuali elementi di disturbo e, poiché abbiamo già deciso che qualcosa ci irriterà, saranno molto elevate le probabilità di irritarsi realmente.
Un altro filtro potentissimo è costituito dalle emozioni quali, per esempio, il timore, l’ira, gli stati di euforia. E’ ben difficile prestare la dovuta attenzione e interpretare correttamente un messaggio quando siamo in preda alla paura che esso possa recarci dei danni, così come non vogliamo sentire ragioni quando siamo arrabbiati.
Immaginate il caso di un venditore che abbia timore del proprio prezzo, che non creda che ciò che vende vale ciò che chiede. Ha paura del momento in cui il cliente affronterà l’argomento del prezzo. Mentre il cliente parla, che cosa rimugina dentro di sé questo venditore? Continua a pensare che ogni cosa detta dal cliente abbia un solo fine: strappargli quella quotazione che lui non potrà mai concedere. Può darsi che il cliente abbia davvero intenzione di negoziare, prima o poi, il prezzo, ma è altamente improbabile che dica ogni cosa in funzione di questo obiettivo.
Un ultimo filtro lo possiamo chiamare “E’ capitato anche a me!”. Qualcuno ci racconta un episodio di cui è stato protagonista o un fatto di cui è stato testimone e noi cominciamo a ricordare (e a raccontarci) qualcosa di analogo che è capitato a noi. E’ ovvio che non ascoltiamo: siamo ancora una volta troppo intenti ad ascoltarci.
Ora, se le modalità di ascolto che abbiamo esaminato fino a questo momento sono tutte in qualche modo carenti, qual è la forma di ascolto realmente efficace che possiamo apprendere?
Lo vedremo nella seconda parte di questo articolo, al prossimo aggiornamento del nostro sito.