Possiamo chiamarlo effetto Northridge, dal nome del potente terremoto che ha colpito una zona nelle vicinanze di Los Angeles alle 4.30 di un mattino di gennaio nel 1994. Nel giro di un’ora, e per tutto il resto della giornata, i paramedici impegnati a soccorrere persone schiacciate o intrappolate dentro agli edifici hanno dovuto far fronte a una seconda ondata di decessi provocati da attacchi cardiaci, tra gente che era uscita illesa dal sisma.
Nei mesi seguenti, i ricercatori di due università hanno esaminato i referti dei medici legali e hanno rivelato un impressionante balzo in avanti dei decessi per crisi cardiovascolari, da una media giornaliera di 15,6 ai 51 del giorno del terremoto. Per dirla in parole povere, si erano spaventati a morte.
La medicina popolare ha sempre ammesso che un improvviso spavento o una cattiva notizia può essere fatale.
Per lungo tempo però, i cardiologi hanno fatto resistenza all’idea che il cuore, la vigorosa sorgente della vita, possa essere sconvolto in modo fatale da un evento mentale.
Ma non sono soltanto gli shock improvvisi come i terremoti ad uccidere. E’ sempre più dimostrato che stati emotivi cronici come lo stress, l’ansia, l’ostilità e la depressione impongono un pesante tributo. Il rischio rappresentato dai fattori psicologici e sociali ha un’incidenza almeno pari a quella dell’obesità, del fumo e dell’ipertensione.
I ricercatori cominciano adesso a capire perché. E un numero sempre maggiore di ospedali sta traducendo questa migliore comprensione in programmi che si ripropongono di combattere le malattie cardiache nel più improbabile dei luoghi di origine: il cervello.
Debra Moser, professoressa di scienze infermieristiche all’università del Kentuchy, presentò anni fa i risultati di una sperimentazione condotta su 536 pazienti che avevano subito attacchi di cuore.
Aveva misurato i loro livelli di ansia con un classico test psicologico a risposta multipla, e aveva controllato se avevano avuto ulteriori complicazioni – come un secondo attacco cardiaco – durante il periodo trascorso in ospedale.
Quelli dal cui test erano usciti i valori di ansia più elevati avevano il quadruplo delle possibilità di andare incontro a complicazioni rispetto a quelli che avevano registrato i punteggi più bassi.
I medici stanno scoprendo che i fattori psicosociali costituiscono elementi di rischio molto più significativi di quello che si pensava in passato.
Prendete la depressione. In una persona in buona salute fa raddoppiare, almeno, il rischio di attacco cardiaco, dice Michael Frenneaux, professore di medicina cardiovascolare all’università di Birmingham, in Inghilterra.
E per le persone che hanno avuto un attacco cardiaco in passato, la depressione quadruplica o addirittura quintuplica il rischio di averne un altro. Anche l’ostilità è un fattore di rischio sempre più importante.
Elevati livelli di ostilità, misurati mediamente in test standard, fanno aumentare del 29 per cento le possibilità di morire di malattia cardiaca.
Anche i traumi infantili sembrano avere un impatto sulle malattie cardiache. In una recente inchiesta condotta su oltre 17.000 adulti a San Diego, la dottoressa Maxia Dung, del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha rilevato che il rischio di attacchi cardiaci sale tra il 30 e il 70 per cento in quelle persone che hanno riferito di avere avuto esperienze infantili negative, come abusi fisici, sessuali o emotivi, violenza domestica o familiari che abusavano di droghe o alcol.
E se lo stress nell’infanzia può portare a malattie cardiache, qual è l’effetto dei fattori di stress nella vita corrente (orari di lavoro più lunghi, minacce di licenziamento, tracollo dei fondi di pensione)?
Uno studio dello scorso anno, sulla rivista The Lancet, ha esaminato oltre 11.000 soggetti colpiti da attacco cardiaco in 52 paesi, e ha scoperto che nei dodici mesi precedenti all’infarto i pazienti avevano subito uno stress notevolmente maggiore – al lavoro, in famiglia, per guai finanziari, depressione e altre cause – rispetto a circa 13.000 persone in buona salute.
Fabio Galimberti da “La Repubblica” del 26 settembre 2005