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“L’uomo che vide l’infinito” di Matt Brown


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Ancor più di un pittore, di uno sculture, di un poeta o di un drammaturgo, un matematico può diventare, in un film che ne celebri le scoperte, figura magica, mitica, pura incarnazione del genio, o più semplicemente di un sapere che arriva, se non direttamente da Dio, da forze oscure e misteriose. Ecco perché il pubblico ha amato così intensamente il John Nash di A Beautiful Mind, l’Alan Turing di The Imitation Game e lo Stephen Hawking a cui James Marsh ha dedicato La teoria del tutto. Ognuno di questi tre biopic, oltretutto, conteneva, accanto a formule e rivoluzionarie teorie, un dramma personale e una relazione più o meno sentimentale che rendevano rotondo il personaggio principale e accorciavano le distanze fra la sua mente superiore e il cervello normale dell’uomo medio.
Sulla carta, la vicenda di Srinivasa Ramanujan – che veniva da un’umile famiglia di Madras – non aveva neppure bisogno di questi elementi aggiuntivi, perché il ragazzo del Tamil Nadu possedeva qualcosa in più rispetto ai suoi illustri colleghi occidentali dalla pelle bianca: la povertà, un destino infausto, un matrimonio segnato dalla lontananza e un intuito a dir poco straordinario. La sua epopea andava dunque narrata ad ogni costo, anche a rischio di non elevarsi al di sopra della classica biografia cinematografica precisa e puntuale ma in fondo priva di particolare afflato. Effettivamente, è soprattutto la straordinarietà del vissuto che ricostruisce il motore che muove L’uomo che vide l’infinito, l’energia che lo alimenta e che ne fa una storia di sacrificio da cui prendere esempio: l’esempio di un ragazzo non aduso ai costumi europei che antepose il suo matrimonio e la sua salute allo studio delle partizioni.

Con un inizio un po’ alla Merchant-Ivory che indugia sulla vita pre-Cambridge di Ramanujan per spiegare lo spaesamento che successivamente lo coglie, il film di Matt Brown è ineccepibile della descrizione delle difficoltà di integrazione del giovane, dello snobismo degli accademici più paludati e della xenofobia di molti studenti che vedevano il nuovo compagno di corso come una “curiosità esotica”. Ognuno di questi aspetti, però, non è indagato in profondità, e in più il regista non vuole rendere l’orgoglioso Mozart dei numeri primi troppo immodesto, i neo-soldati inglesi eccessivamente razzisti, la malattia di Srinivasa troppo indigeribile. Forse per amore di fedeltà alla storia (e al libro biografico di Robert Kanigel), o per una pruderie tipicamente britannica, L’uomo che vide l’infinito sembra insomma prediligere un approccio corretto alla materia di cui tratta e per un bel po’ si mantiene a metà strada fra la spiegazione del lavoro dello studioso indiano e il ritratto dell’amicizia fra quest’ultimo e il professor G.H. Hardy, che intuì la sua genialità, provò ad addomesticare il suo sapere “selvaggio” e si batté affinché diventasse un membro della Royal Society e del Trinity College. Per fortuna a un certo punto il film sceglie di percorrere soprattutto la seconda strada e, stemperando la sua ingenuità, risorge, anche perché una partita giocata fra Dev Patel e Jeremy Irons difficilmente non può essere una scommessa vinta.

Per quanto fisicamente diverso dal personaggio, l’attore divenuto una star con The Millionaire è infatti sempre a fuoco e nella spigolosità dei suoi tratti esprime benissimo il carattere ostico di Ramanujan, devoto alla matematica, severo con se stesso come un monaco e facile preda di una febbrile estasi creativa. L’eccentrico professore di Irons ne smussa il rigore con un’ironia compassata e un’eleganza fisica e intellettuale che sono poi tratti costituitivi di un attore che da decenni veneriamo. Il rapporto fra i due personaggi, che trascolora in un’amicizia che passa per la vulnerabilità del maturo matematico, è interessante, perché riproduce la sempiterna dialettica fra fede e scienza, fra dogma e conoscenza empirica.

E poi L’uomo che vide l’infinito illustra bene la vita e i rituali universitari, divertendosi quasi a evidenziare l’arguzia di un Bertrad Russell, affettuosamente soprannominato Bertie, e l’intelligente dolcezza di John Littlewood. E’ un mondo che Brown conosce bene e che filma in maniera raffinata ed impeccabile, perché questo suo secondo lungometraggio che ha un po’ l’aria del compitino, è comunque un prodotto ottimamente confezionato, che se non altro riporta alla memoria e riabilita un grandissimo ingegno ingiustamente punito dalla vita.

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