L’avventura della Michelin è fantastica: la famiglia ha firmato un prodotto come l’artista firma un quadro. Ne parliamo con François Michelin, dal ’55 direttore generale.
Dopo oltre un secolo, il nome Michelin è conosciuto nel mondo intero, al punto di diventare quasi un termine generico. Una simile popolarità avrebbe stuzzicato la vanità di molti. Come fa lei a vivere con semplicità questa condizione?
“Io non guardo il cammino percorso, ma quello che resta da fare. Questo permette di rimanere coi piedi per terra. Si prova una tale sensazione di piccolezza di fronte alla vastità del compito che si ha davanti. A volte mette spavento dire a se stessi che 120.000 persone dipendono dalla tua azienda. Quali che siano i consigli di amministrazione e gli altri sistemi protettivi messi in atto, arriva il momento in cui si devono prendere decisioni che potrebbero rivelarsi fatali per la fabbrica. Nulla è scontato; se le scelte fanno tanta paura, è perché, quando si prende una decisione, non si hanno mai in mano tutti gli elementi. Un capo d’impresa naviga nell’incertezza. Bisogna agire in tempo reale, questo è il problema. Ancora una volta, alla base di ogni decisione, c’è la domanda: questo è utile al cliente? È questo che porta a soddisfare gli azionisti e il personale”.
Si ha ancora la sensazione che il nostro nome ci appartenga, quando, come nel suo caso, diventa di dominio pubblico?
“Mio nonno un giorno mi disse che gli rincresceva molto di aver battezzato “Michelin” i nostri pneumatici. È un grosso peso per una famiglia. Non si guarda mai François, si guarda Michelin. Il solo aspetto vantaggioso che ci vedo è il fatto che dà una dimensione più umana al prodotto”.
Esiste, nonostante tutto, un filo conduttore che i Michelin si trasmettono di padre in figlio? E i fratelli Michelin che fondarono l’azienda quale importanza davano ai valori?
“Da quanto mi risulta, sì. Ma Edouard Michelin fu quello che ne era più permeato. “Il vostro dovere numero uno è quello di amare gli operai di cui siete responsabili”, diceva ai suoi quadri dirigenti. Amare in questo senso non è affatto sentimentalismo idiota; è semplicemente vedere le persone per quello che sono”.
Nessun capo d’impresa oggi si arrischierebbe a dire una cosa simile a un suo dirigente.
“Lei crede? È vero che, quando si parla di “risorse umane”, ci si chiede che cosa ne sia dell’uomo”.
Suo nonno era cristiano…
“Sì. Il cristianesimo spiega perché le cose sono “come sono”. Ma ogni essere umano che si stupisce di fronte alla bellezza di una rosa o di un paesaggio non è forse, senza saperlo, un credente? La bellezza è il nome di Dio. Molti non vogliono andare al fondo delle loro convinzioni, forse per paura di esigenze morali che, detto incidentalmente, dipendono dal modo armonioso di coesistere degli esseri umani”.
Lei è il prodotto di una “dinastia” industriale che ha cercato, nel corso della sua formazione, di trasmetterle dei valori. A che età lei ha realmente riconosciuto questi valori? Quando ha capito la fabbrica e le sue finalità?
“Sa, all’inizio il mio sogno non era quello di dirigere la fabbrica. Volevo fare il meteorologo! Non so perché, ma le nuvole mi appassionano. In gioventù avevo anche iniziato un corso di meteorologia alla Sorbona. Mi ricordo perfettamente del mio professore: ci faceva partecipi della sua passione per i vortici e altri misteri dell’atmosfera… Era meraviglioso”.
Perché meteorologo e non astrofisico?
“Perché, ripeto, le nubi mi appassionano”.
Lei avrebbe potuto fare altro, invece di lavorare alla Michelin?
“Mignol, l’inventore del pneumatico radiale, una volta mi disse: “Se lei non ama il pneumatico se ne vada!””.
Lei fu quindi sedotto dal pneumatico?
“Che oggetto appassionante! L’automobile è un simbolo meraviglioso che da solo riassume in sé tutta la storia dell’umanità: la maratona, le strade romane, il cavallo…”.
Come giunge a conciliare il suo umanesimo cristiano con il capitalismo?
“Lei mi infastidisce quando mi trascina su questo terreno. Ma perché no? La parola “capitalismo” è nata nella testa di Marx, che concepiva i rapporti tra capitale e lavoro soltanto sotto forma di una lotta mortale che chiamò “lotta di classe”. Con la sua logomachia hegeliana, giustificava l’odio come motore della storia. Ma il capitale è per l’impresa ciò che lo scafo è per il marinaio. Il ruolo essenziale del capitalista consiste nel vigilare in permanenza, perché lo scafo dell’impresa permetta a questa di navigare il più lontano possibile senza far acqua. Perché dovrebbe esserci una lotta mortale tra capitale e lavoro?”.
Lei non è un padrone come tutti gli altri. Lei ha un’etica, una morale…
“Sa, ognuno ha il proprio cammino, la propria esperienza. L’etica – per rispondere un po’ più per esteso a una precedente domanda – che mi viene dalla fede cristiana fa paura, perché mi indica costantemente la distanza tra ciò che faccio e ciò che bisognerebbe fare. Ma al tempo stesso mi dà la forza di continuare”.
Ma lei non impone a se stesso, dato che intende rispettare regole di fair-play e di lealtà, delle costrizioni che gli altri non necessariamente si impongono?
“Presto o tardi, si subiscono le conseguenze di quanto si è detto o si è fatto. Cristiani o no, se si accetta questa realtà, si agisce con retta coscienza. La fede cristiana apporta un “di più”, nel senso che spiega perché l’ordine del mondo è così. Indica l’atteggiamento di fondo da avere per crescere e aiutare a crescere. Un cristiano ha forse una visione delle cose più precisa, perché va con più naturalezza alla radice dell’uomo. Secondo me, è questo che fa la differenza sul piano umano”.
Il cristianesimo non è forse una morale che invita a una migliore ripartizione dei frutti dell’impresa? Pensiamo alla parabola di Gesù sul lago di Tiberiade, la suddivisione dei pani e dei pesci…
“Sicuramente. Le faccio notare che la suddivisione dei pani e dei pesci non è una parabola ma un fatto storico. Prima di suddividerli, è stato necessario moltiplicarli. Non è questo
un mestiere da industriale? Il cristianesimo ha ricollocato l’uomo al cuore del mondo. Il rispetto dell’altro è un pensiero cristiano. Ma quanta debolezza davanti a questo obiettivo!”.
La sua fede, così sincera, ha cambiato la vita della fabbrica?
“Lo sa Dio, io no! Ma il criterio di una vita giusta per la fabbrica sta nella soddisfazione delle sue componenti, il personale, gli azionisti, i clienti. E quanto resta da fare…! Dirò, con Giovanna d’Arco: “Se ho la fede, che Dio me la mantenga, se non l’ho, che Dio me la doni””.
da “Avvenire” di sabato 24 agosto 2002