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Il Superbowl di Hargrove “Così ho battuto la droga”


Lo vedi in campo, gigantesco, un’esplosione di potenza, e pensi: inarrestabile. Un altro gigante prestato al football americano che non ha paura di nulla. Ma sotto quella corazza, l’armatura che ne amplifica spalle e capacità toracica, il casco luccicante, si cela una enorme, critica, fragilità.  Perché Anthony Hargrove da Brooklyn, New York, viene dall’inferno della vita. E solo ora vede la luce.

Dai campioni del mondo dei New Orleans Saints una vicenda umana e sportiva che un film non avrebbe potuto rendere più intensa, commovente e palpitante. Hargrove ha vinto il Superbowl pochi mesi fa. E’ così entrato nella ristretta sfera dei grandi del football americano. Eppure, quel campo di Miami che lo ha visto protagonista come insuperabile defensive tackle contro gli Indianapolis Colts lui, poco tempo fa, lo osservava con occhi spenti dalle finestre di un centro di recupero per tossicodipendenti che dista, appunto, pochi chilometri dal teatro della gloria.

Già, perché Anthony stava lottando contro l’avversario più vile e micidiale che ci sia: la dipendenza dalle sostanze stupefacenti. E sembrava l’ultimo capitolo di una esistenza dannata. Orfano di padre (perso a 10 anni in un modo altamente drammatico, durante un incendio) e di madre (strappata alla vita dall’Aids), il futuro campione del mondo era stato adottato ancora piccolo da una zia. E aveva cominciato a lottare contro ogni tipo di difficoltà. Talento atletico, aveva finito per fare anche il facchino all’aeroporto di Atlanta: era nato suo figlio e c’era assoluto bisogno di raggranellare qualche dollaro.

Poi, finalmente, una curva positiva per il gigante. Notato da alcuni osservatori, era finito alla Georgia Tech e nel college aveva mostrato la sua attitudine al football. Arrivava quindi l’ingresso nella Nfl. Preso dai St Louis Rams, poi il passaggio ai Bills.

Ma nella National football league Hargrove sembrava essersi perso definitivamente. Droga e alcol. Alcol e droga. Cocaina, soprattutto. Nel 2008 arrivava lo stop: un anno di fermo. Anthony, qui, faceva una scelta, l’unica possibile per battere quell’avversario: decideva di entrare al Recovery Center di North Miami Beach. Ironia del destino: dista appena una manciata di chilometri dallo stadio dove, circa otto mesi dopo, trionferà con New Orleans.

E qui siamo giunti all’ultima incredibile stagione per Hargrove. Dal passato il verbo va coniugato al presente. Il giocatore si sente progressivamente recuperato, di nuovo padrone di se stesso. Migliora di giorno in giorno. Ma c’è un problemino da superare: quale squadra vorrà accogliere un ex tossicodipendente più volte recidivo?

Il suo agente batte tutte le piste e decide di mandare un video delle giocate migliori a tutte e 32 le squadre della Nfl. Risponde solo una: la franchigia dei New Orleans Saints. In quel filmato c’è un talento che non può essersi smarrito definitivamente. I Saints, gente che, dopo la devastazione dell’uragano Katrina, sa cosa significhi ricominciare e quanto sia importante avere e dare fiducia.

Hargrove torna in campo. Nello spogliatoio, affisso al suo armadietto, c’è il documento con cui la Nfl lo riammette al professionismo. “Lo guardo ogni giorno, mi rammenta da quale buco nero e profondo sono venuto fuori e cosa devo fare per non ricaderci”, ammmette.

Gioca alla grande. Contribuisce alla storica vittoria del Superbowl. “E’ stato tutto un piano divino, l’ha voluto Dio”, ripete incredulo. Ma sa bene che la sua gara con la vita non finisce qui. L’avversario, la dipendenza, non è tipo da arrendersi facilmente. Dovrà tornare in quella clinica. Periodicamente. Per tenerlo a bada. Infiacchirlo. Infine sconfiggerlo.

Lo accetta. Non si tira indietro. Guarda avanti: chi viene dall’inferno non può permettersi di avere paura. Coraggio, Anthony, adesso sei un campione del mondo.

Giovanni Marino
La Repubblica (18 agosto 2010)

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