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Due errori del capo


Ci sono dei capi che non sanno comandare perché non ascoltano, ed altri che non sanno comandare perché non decidono. Più volte ho criticato i capi dispotici, autoritari, che non delegano nulla, che danno ordini senza aver consultato i propri collaboratori, i propri esperti. Capi che desiderano essere temuti, che vogliono vedere i propri dipendenti tremare davanti a loro e dire servilmente di si. O che, semplicemente, hanno una personalità così incombente che nessuno ha il coraggio di fiatare. Anche se sono dei geni costoro finiscono inesorabilmente per fare degli errori catastrofici. Nessuno ha spiegato a Napoleone i pericoli che correva avventurandosi all’interno della Russia per inseguire il generale Kutuzov. Ma chi aveva il coraggio di contraddire l’Imperatore?

Ed ora passiamo ai capi che compiono l’errore opposto. Qualche volta si tratta di persone poco intelligenti e paurose che non decidono per timore di sbagliare. Spesso sono burocrati terrorizzati all’idea di assumersi una responsabilità. Non prendono nessuna iniziativa, seguono la routine tradizionale che non fa correre loro nessun rischio. Vi sono poi i capi che desiderano essere amati, che non sanno dire di no, che promettono qualcosa a tutti, ma poi non concludono nulla perché si invischiano in programmi contradditori.

Vi sono infine dei capi intelligenti e liberali che danno una grande autonomia ai propri collaboratori, li lasciano fare, li fanno discutere, favoriscono l’emulazione, la competizione per fare emergere molte idee, molte proposte. Alcuni di loro, però, prolungano troppo la fase di mobilitazione. Accogliendo sempre nuovi progetti, inserendo sempre nuovi protagonisti, finiscono per generare incertezza, disordine e scatenare conflitti. E c’è perfino chi, lasciando fare, crea una specie di corte feudale dove comandano i cortigiani e i favoriti.

Per evitarlo bisogna che il capo faccia il capo. Ne ho avuto un bell’esempio recentemente. In una situazione creativa ma pericolosa, il capo ha riuniti tutti gli interessati ed ha elencato con lucida chiarezza i problemi da risolvere. Poi li ha fatti parlare, li ha lasciati discutere, li ha lasciati sfogare. Alla fine però ha enunciato con fermezza le sue conclusioni e le sue decisioni. Poi ha assegnato a ciascuno il suo compito, e la scadenza in cui doveva portarlo a termine. Si è creata immediatamente una atmosfera serena e tutti sono usciti motivati ed allegri.

Francesco Alberoni
“Il corriere della Sera”

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