L’ottimismo e la felicità si toccano come il cielo e il mare all’orizzonte. Non possono esistere l’uno senza l’altra. E ci stiamo riferendo qui tanto all’essere felici quanto all’avere fortuna (in amore, al gioco…).
Sulla fortuna non ci sono molte parole da spendere: probabilmente, l’ottimista ne ha più di altri. Sulla felicità come stato d’animo, invece, non se ne possono usare abbastanza. Infatti, in che cosa consiste il senso di tutta l’esistenza, se non nella felicità? Che la si veda a breve o a lungo termine, che la si consideri dal punto di vista dall’individuo o in termini più generali, quale può essere il filo conduttore delle nostre azioni, dei nostri pensieri e dei nostri giudizi se non quello della “greatest happiness of all”?
Se vogliamo fare la cosa giusta nel tempo che ci è concesso, è qui che deve focalizzarsi il centro dei nostri sforzi, il nostro metro di giudizio. Questa guerra renderà veramente più felici gli uomini a lungo termine? Questo sviluppo tecnologico, con le sue possibilità e i suoi rischi, aumenterà il potenziale di felicità di noi tutti oppure lo ostacolerà? Come altrimenti, se non con questo tipo di domande, dobbiamo porci di fronte alle complesse sfide etiche della vita? Quale altra potrebbe essere la meta dei nostri giudizi e delle nostre azioni?
La cosa sorprendente, quindi, è che riflettiamo troppo poco su questo tema e che ce lo poniamo come obiettivo con scarsa consapevolezza.
Eccovi solo alcune idee di fondo.
La felicità trascende il senso della vita. Chi è felice non sta a chiedersene il perché.
la felicità supera il concetto oggettivo di tempo. “Per l’uomo felice non suona nessuna ora”, dice Schiller nel Wallenstein; e il Faust di Goethe, davanti alla bellezza del momento, vuole una cosa soltanto: trattenerla. La felicità può durare mesi e sembrare solo un istante. E la gioia dell’aspettativa che precede il momento reale non di rado è più bella della stessa esperienza di felicità.
La felicità è strettamente correlata alla libertà e all’autodeterminazione.
Sfugge magicamente a ogni sistema, a ogni intenzionalità diretta. Va e viene e la si può gestire solo in misura limitata. Non servono consulenti, seminari per la realizzazione di sé o stimoli del genere “Be happy!”. A volte arriva proprio quando meno ce l’aspettiamo e brilla per la sua assenza quando invece tutto la invoca, per esempio a Natale, dopo un esame superato o perfino durante le settimane più belle.
Capita a tutti: siamo di buon umore, in fondo senza comprenderne davvero la ragione. E spesso solo in un secondo tempo ci rendiamo conto di quanto una determinata situazione ci abbia resi felici.
La felicità è dentro di noi. È una terribile abitudine, quella di imputare sempre l’assenza al brutto tempo, o alla mancanza di soldi, a un capo fastidioso o a una moglie scorbutica.
Possiamo sforzarci di addomesticare la felicità e l’infelicità: in fondo, lotterie e assicurazioni vivono di questo. Solo che non ci riusciamo.
La felicità vive dell’infelicità. Le occorre il contrasto. La felicità da sola non funziona. Così come nutrirsi di sola cioccolata o baciarsi continuamente davanti al tramonto.
Che cosa si può dire dell’oggetto della felicità?
Che cosa ci serve per essere felici?
Tal Ben-Shahar, studioso della felicità e psicologo all’Università di Harvard, definisce la felicità come “un’esperienza totale di piacere e di pienezza di significato”
Il piacere nasce da sentimenti positivi nel qui e nell’ora; il significato si ha quando ci prefiggiamo determinati scopi nella vita e sappiamo che la nostra azione potrà avere un’utilità futura. Per essere felici ci occorrerebbero entrambi. Né l’edonismo più orientato al presente né la smania di fare carriera alla ricerca di un futuro sempre migliore potrebbero da soli essere la risposta alla nostra ricerca del senso della vita.
Lo scrittore Theodor Fontane ha osservato in maniera molto lapidaria: “Un buon libro, un paio di amici, un posto in cui dormire e niente mal di denti”. È formulato molto bene e certo troverà l’approvazione di tutti, ma non è sufficiente. Ogni esperienza di vita che superi i confini individuali, storici e nazionali dimostra che ogni definizione dell’oggetto della felicità è condannata a fallire. La felicità è unica come i nostri occhi e il nostro sorriso.
Ciò che per uno rappresenta la felicità, per un altro è noia. Uno ama le arie operistiche, l’altro lavare la macchina tutte le settimane. Uno si sente perfettamente a posto con un libro in mano, l’altro quando è sulla tavola da surf in mezzo alle onde. E perfino gli attentatori kamikaze fanatici spinti da motivazioni religiose probabilmente in un qualche modo perverso sono felici nel momento in cui compiono il loro gesto.
Ottimismo significa confidare di avere la felicità dentro di sé, ricercarla e darle una forma consapevolmente e avere la forza individuale di riempire in un modo che ci soddisfi personalmente il grande quadro vuoto che abbiamo dentro.
Florian Langenscheidt
“Il dizionario dell’Ottimista”