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“Il più bel gioco della mia vita” di Bill Paxton


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Per chi non ne fosse ancora al corrente, “Frailty – Nessuno è al sicuro”, riuscito thriller interpretato nel 2001 da Matthew McConaughey che tirava in ballo serial killer, FBI e messaggeri di Dio, segnò l’esordio dietro la macchina da presa per Bill Paxton (se non contiamo il cortometraggio d’animazione Fish heads, del 1982), attore dalla carriera ormai trentennale nella cui vasta filmografia troviamo veramente di tutto, dagli horror di serie b (Mortuary – Obitorio, Brain dead) ai blockbuster hollywoodiani (Twister, Apollo 13), alle collaborazioni con James Cameron (Terminator, Aliens – Scontro finale, Titanic).

Ora, Paxton si cimenta nuovamente nella regia cinematografica con “The greatest game ever played”, tratto dall’omonimo libro di Mark Frost (anche sceneggiatore del film), lungometraggio ambientato nel secondo decennio del secolo scorso, il quale, fin dai primi minuti di visione, grazie soprattutto alla bella fotografia di Shane Hurlbut (Trappola in fondo al mare), ricorda non poco quelle veritiere favole per ragazzi alla vecchia maniera che, puntualmente, vengono proposte ogni anno in televisione durante il periodo natalizio.

La storia che viene raccontata è infatti quella del più grande eroe sportivo americano di cui probabilmente non avete mai sentito parlare: Francis Ouimet, ottimamente interpretato dal giovane Shia LeBeouf (Constantine), giocatore di golf amatoriale di una famiglia modesta che gettò nello sconcerto il mondo dello sport in questione quando, in occasione degli U.S. Open del 1913, sconfisse il suo idolo, il campione britannico in carica Harry Vardon, qui con il volto di Stephen Dillane (“The truth about Charlie”). Il tutto, supportato dal suo inseparabile caddie in miniatura Eddie Lowery, interpretato da Josh Flitter (“Nascosto nel buio”), mentre Paxton ci porta anche a conoscenza di fondamentali personaggi come il duro e grande lavoratore padre di Francis, con le fattezze di Elias Koteas (Traffic), e la bella Sarah Wallis/Peyton List, ragazza che cattura il cuore del protagonista.

E, supportato dal lodevole montaggio di Elliot Graham (Superman returns), lo fa ricorrendo ad una regia piuttosto classica, non priva, comunque, di trovate surreali (da antologia l’anello di fumo che va a posarsi sulla palla da biliardo) o virtuosismi tecnici mai gratuiti, tanto che le palline da golf che vengono violentemente scaraventate contro lo schermo riescono perfino nell’impresa di far chiudere gli occhi o girare la testa di lato allo spettatore.
La passione, la magia delle attività artistiche (perché anche saper giocare a golf è un’arte), quindi, all’interno di circa 120 minuti di visione di sicuro senza sorprese, ma nettamente al di sopra della media e venati di poesia, che catturano l’attenzione dalla prima all’ultima inquadratura, al fine di ricordare per l’ennesima volta che i giovani talenti, inaspettatamente, sono spesso in grado di superare anche i maestri più celebrati.

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