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La filosofia


Penso alla mia esperienza con la filosofia. L’ho studiata per tre anni al liceo. Ero anche bravo, prendevo ottimi voti, ma solo ora mi rendo conto di come non capissi assolutamente nulla. Era un esercizio intellettuale, una “materia” come la fisica, le scienze naturali, qualcosa da imparare per far bella figura alle interrogazioni, per passare agli esami, una roba fine a se stessa. Nessuno di quei bravi professori che mi facevano lezione di filosofia, come fosse un susseguirsi di idee – una che negava l’altra – riuscì a farmi capire che quella “roba” aveva a che fare con la mia vita.
In India tutti sembravano saperlo. La filosofia lì non è una forma di ginnastica, non è il monopolio dei colti, non è riservata alle accademie, alle scuole, ai “filosofi”. La filosofia in India è parte della vita, è il filo di Arianna con cui uscire dal labirinto dell’ignoranza. La filosofia è la religione grazie alla quale gli indiani contano di raggiungere la salvezza che nel loro caso è conoscenza. Non la conoscenza “utile”, quella per manipolare, possedere, cambiare, dominare il mondo (la scienza non è mai stata il loro punto forte); bensì, come dicono i testi sacri, “quella conoscenza che una volta conosciuta non lascia più niente da conoscere”: la conoscenza di sé.
A noi occidentali tutto questo ormai suona strano e forse superato.
Per noi, la sola conoscenza che conta e che si rispetta è quella “utile”, quella applicabile, quella che serve a trovare un lavoro o a procurarsi un piacere. Noi non ci chiediamo più chi siamo e guardiamo a noi stessi e agli altri in termini puramente utilitaristici.
Agli inizi degli anni trenta un avventuroso inglese di nome Paul Brunton fece un lungo viaggio in India sulle tracce della sua sapienza che lui vedeva minacciata dall’irresistibile avanzare della mentalità occidentale. Uno dei bei personaggi che Brunton incontra è un vecchio yogi che nel corso della conversazione gli dice: “Solo quando i sapienti occidentali rinunceranno a inventare macchine che corrono più svelte di quelle che già avete e cominceranno invece a guardare dentro di sé, la vostra razza scoprirà un po’ di vera felicità. Lei non crederà che il poter viaggiare sempre più velocemente
renda la vostra gente più felice?”
Sono passati più di settant’anni. Molti indiani son capaci ancora oggi di porsi quella stessa domanda.
Ma noi ce la siamo mai posta?
Pare proprio di no, visto che il correre sempre più velocemente è diventato il nostro modo di essere. Tutto è ormai una corsa. Si vive senza più fare attenzione alla vita. Si dorme e non si fa caso a quel che si sogna. Si guarda solo la sveglia. Siamo interessati solo al tempo che passa, a farlo passare, rimandando al poi quel che si vorrebbe davvero.
Sul “poi”, non sull’ “ora”, si concentra l’attenzione.
Nelle città in particolare la vita passa senza un solo momento di riflessione, senza un solo momento di quiete che bilanci la continua corsa al fare.
Ormai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di meravigliarsi, di inorridirsi, di commuoversi, di innamorarsi, di stare con se stessi. Le scuse per non fermarsi a chiederci se questo correre ci fa più felici sono migliaia e, se non ci sono, siamo bravissimi a inventarle.
Da ragazzo ho conosciuto uomini che avevano tempo. Erano i pastori dell’Orsigna nell’Appennino toscano, dove andavo in vacanza. Stavano per ore con un filo d’erba in bocca, distesi su un prato in cima a un monte a guardare da lontano il loro gregge e a riflettere, a sognare, a formulare dei versi che a volte scolpivano nelle pietre delle fonti o cantavano la domenica nelle gare di poesia attorno a una damigiana di vino. In India tutti hanno tempo e spesso hanno anche una qualche semplice riflessione da spartire con chi passa, come l’uomo che su una strada di campagna ha un misero baracchino per fare il tè. Te lo porge in una ciotola di terracotta e ti insegna a scaraventarla poi al suolo facendoti notare che torna a essere parte della terra… con cui si faranno nuove ciotole.
Come succede anche con noi.

Tiziano Terzani
da “Un altro giro di giostra”

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