Immaginiamo di osservare un’officina meccanica per automobili. Vedremmo decine di attrezzi di differenti misure. Guardiamo il meccanico mentre ne sceglie uno. Spesso la prima chiave scelta non è quella adatta, e questa viene individuata per tentativi ed errori.
Come il meccanico, il dirigente che intende realizzare un intervento deve essere disposto a sperimentare finche non abbia trovato la leva corretta di cambiamento in grado di produrre i risultati attesi. Procedere per tentativi ed errori (o, come si dice talvolta oggi, secondo un approccio iterativo), rappresenta per certe organizzazioni un metodo relativamente nuovo. Continua ad essere diffusa l’idea mitica di un dirigente che fa sempre le cose giuste al primo colpo e di un organizzazione che, specialmente se pubblica, non può permettersi il lusso di consentire qualunque errore.
La scienza del management, con la sua enfasi sulla qualificazione e sulla razionalità è giunta ad essere considerata una sorta di panacea per la costruzione di organizzazioni di successo. Gli esperimenti su larga scala sono quindi spesso condannati come interventi dissennati, troppo costosi o comunque espressione del fatto che non si è fatta abbastanza ricerca originale per minimizzare l’incertezza.
L’incarnazione vivente di questo approccio sistematico al management è stato Robert McNamara che, con i suoi collaboratori, invase la Ford, dopo averla assediata, subito dopo il termine della seconda guerra mondiale. I “ragazzini proiettile”, come furono chiamati, arrivarono come un pacchetto e si vendettero all’azienda come un gruppo precostituito. Portarono in dote straordinarie capacità di calcolo. Conducendo ricerche sistematiche in ogni settore del colosso automobilistico che si stava sgretolando, fecero infinite domande, tanto da essere soprannominati, per un certo periodo, i “ragazzi quiz”.
I ragazzini misurarono tutto il misurabile e sfruttando le informazioni raccolte ebbero la meglio sui loro detrattori. Il loro successo nel trasformare la Ford, costituì un esempio per parecchie generazioni di dirigenti. Il prezzo di questa influenza è stato comunque elevato. Numeri ed analisi hanno da allora dominato il pensiero manageriale, specie in alcune delle aziende multinazionali più importanti ridimensionando radicalmente, e in certi casi virtualmente sopprimendo, le possibilità di sperimentazione.
Gradualmente, i dirigenti di tutto il mondo hanno cominciato a comprendere che la quantificazione, l’analisi e la razionalità hanno un fondamento in pregiudizi conservatori che antepongono la certezza alla creatività e soffocano il cambiamento tollerando soltanto una minima sperimentazione. Mirare ad una quasi certezza significa di frequente bandire le sperimentazioni ed in ultima analisi il successo.
Una grave critica alle scuole di economia è stata di formare laureati che si affidano ad un approccio analitico, incentrato soprattutto su obiettivi a breve termine e che poco riconosce il valore di una visione e di un investimento sul lungo periodo.
Tale approccio iper razionale, che ha caratterizzato gran parte del pensiero manageriale, ha contagiato anche organizzazioni tradizionalmente immuni ai prodotti di queste scuole. In Giappone, ad esempio, una certa passione per i numeri, l’ordine e la quantificazione si è in certi casi mostrata di ostacolo. Per anni il colosso automobilistico Nissan è stato guidato da esperti finanziari ad orientamento quantitativo che si sono fieramente opposti alle istanze di quei rappresentanti che, operando negli Stati Uniti, chiedevano di sperimentare modelli adattati al mercato americano.
Tutti i valori della nostra cultura sembrano anteporre la routine alla creatività, ciò che risulta ben stabilito a ciò che è nuovo, l’agevole al disagevole, la noia all’entusiasmo, la precisione all’approssimazione. I manager sono pagati per agire correttamente e le prospettive di carriera dipendono soprattutto dalla possibilità di evitare errori.
Non dovrebbe sorprendere che la sperimentazione, e quindi i nuovi prodotti, provengano in molti casi dall’esterno, da luoghi diversi dalle industrie e dalle organizzazioni che logicamente dovrebbero produrli.
Le industrie di beni di consumo, ad esempio, tendono ad avere un dipartimento o un luogo specializzato deputato alla ricerca di nuovi prodotti. Dato che poche persone sono disposte a legare il proprio nome ad un insuccesso, la conseguenza che ne deriva è un processo interminabile di produzione di idee, di sviluppo e valutazione di concetti, di ricerca di mercato. I cosiddetti nuovi prodotti però non sembrano raggiungere mai il mercato. Uno dei massimi esperti di marketing è uso chiedere ai propri clienti che cercano un nuovo prodotto “quanto denaro sono disposti a perdere”.
A coloro che non sono propensi a sopportare le perdite legate ad un eventuale insuccesso, risponde che non possono permettersi il lusso d’insistere.
Andrew Leigh – DIRIGERE NEL NUOVO
Franco Angeli